“Ormai solo un Dio ci può salvare” diceva il grande filosofo Martin Heidegger – non proprio un uomo di chiesa – alla fine della sua vita. Viviamo in tempi strani, tempi bui secondo tanti osservatori. L’umanità ha fatto enormi passi avanti in molti campi, eppure mai come oggi c’è un vuoto di speranza di fronte alla vita. Ripiegati sul presente, spesso il futuro ci appare più come una minaccia che come una promessa. Uno dei segni più evidenti di questa mancanza di speranza è che le persone mettono al mondo sempre meno figli, e in questo la Sardegna è all’ultimo posto in Italia. L’ultimo rapporto Censis, di qualche giorno fa, rivela che continuando così, nel 2040 solo una coppia su 4 avrà figli.
In questo clima di sfiducia noi cristiani abbiamo innanzitutto il compito di essere annunciatori della buona notizia: Dio, nonostante tutto, non ci abbandona e continua a venire nella nostra storia per portare luce, pace, speranza. Come Giovanni Battista, siamo chiamati ad essere quella voce che, nei deserti del mondo, nella steppa che sembra avanzare e sottrarci spazi vitali, si fa testimonianza autorevole e credibile della presenza di Cristo, Dio che si fa vicino alla nostra vita donandole un orizzonte nuovo.
Don Davide
L’ultima domenica dell’anno liturgico si festeggia Cristo Re dell’Universo. Ci viene ricordato che quel Gesù di cui lungo tutto l’anno abbiamo contemplato i misteri della vita, è anche il Signore, colui che sta sopra qualunque potere di questo mondo e tiene in mano le redini della storia.
Si può credere davvero a tutto questo? Non abbiamo troppo spesso l’impressione che il mondo sia piuttosto guidato e governato da ben altri poteri? Perché diciamo che Cristo è il Re dell’Universo se poi sembrano avere la meglio persone e potenze che invece del bene fanno prevalere l’egoismo, l’odio, la violenza?
La liturgia di questa domenica ci aiuta a rispondere mostrandoci un tipo di regalità radicalmente diversa da quella dei potenti di questo mondo. Gesù si rende presente nella storia non come un potere invincibile che mette a posto le cose annullando la nostra libertà, ma come colui che vuole rinnovare il mondo attraverso la nostra libertà.
San Paolo nella seconda lettura ci dice che verrà un momento in cui il male e la morte saranno sconfitti per sempre, ma che nel frattempo c’è una lotta drammatica contro il male che è in noi e fuori di noi. Una lotta in cui Cristo usa le armi della mitezza, dell’umiltà, della pazienza. L’immagine del buon pastore di cui parla la prima lettura tratta dal libro di Ezechiele ci parla di questo stile di Gesù, così attento al cammino umano di ciascuno di noi. Non una ricerca del potere e del consenso ma una passione per la felicità della singola persona.
Cristo è il Re, ma noi non siamo i suoi sudditi. Ci chiama a regnare con lui secondo il suo stile, mettendoci al servizio gli uni degli altri. Soprattutto dei più bisognosi, come ci ricorda il vangelo di questa domenica. Su questo si giudicherà la riuscita o il fallimento della nostra vita.
Don Davide
La parabola che ascoltiamo questa domenica è tratta dal capitolo che precede il racconto della passione. Il brano parla proprio di un signore che sta per partire per un viaggio da cui tornerà dopo molto tempo. Anche Gesù con la sua passione e morte sta per compiere un lungo viaggio, da cui un giorno farà ritorno. In mezzo sta il tempo dell’attesa, quello che stiamo vivendo noi. È vero infatti che lui ci ha promesso di essere con noi tutti i giorni. Ma non è estranea al Nuovo Testamento l’idea di una distanza che ancora c’è tra noi e lui, una condizione di esilio che viviamo lontano da lui in questa terra.
La parabola mette l’accento proprio su questo tempo di mezzo che intercorre tra la partenza del padrone e il suo ritorno. Quest’ultimo prima di partire distribuisce le sue immense ricchezze ai servi, dando a ciascuno uno o più talenti. Si tratta di una ricchezza che deve essere trafficata e fatta fruttare.
Gesù insegna che ci verrà chiesto conto di come abbiamo usato i talenti che Dio ci ha dato. Ma sarebbe fuorviante pensare che questi talenti siano semplicemente le doti che abbiamo, le qualità che ci rendono naturalmente bravi in qualcosa. Cristo non vuole da noi qualcosa, non vuole “risultati”, vuole il nostro cuore. L’enorme ricchezza che deve portare frutto è la nostra stessa vita, così come è, magari piccola e includente ai nostri occhi ma, a guardare più in profondità, anche piena di bene, ricca dei nostri tentativi e della nostra lotta per affermare un senso per noi e per il mondo. Seguire Cristo ogni giorno e offrirgli la nostra vita così come è perché il suo regno si realizzi: questo è il vero frutto che lui si attende da noi. Chi invece vive solo per se stesso, per la propria tranquillità o il proprio tornaconto non porta frutto e spreca la sua vita.
Don Davide
Sarebbe interessante interrogarci su quali siano le verità di fede che noi cristiani stiamo mettendo da parte. Una è certamente la venuta di Cristo alla fine dei tempi, quella che chiamiamo parusia. È una verità ampiamente richiamata dalla Scrittura e dalla liturgia, eppure sembra non avere alcuna centralità nella predicazione, nella catechesi, nei dialoghi tra di noi. Ciò contribuisce a farci vivere una fede ripiegata sulle urgenze del presente, senza più il senso della salvezza della storia, senza l’attesa di un compimento futuro, senza che abbiamo il cuore teso alla venuta definitiva di Cristo. Il tema non è facile da trattare, ma metterlo da parte significa mutilare la nostra fede.
Il vangelo di questa domenica ci mette in guardia su questo. La parabola fa riferimento ai costumi del tempo, secondo cui era previsto che lo sposo si recasse la notte a casa della sposa, sposa che era affiancata da damigelle con il compito di illuminare la strada allo sposo che arrivava. Gesù ci chiede di avere un cuore pieno di attesa. Questo è il significato delle lampade e dell’olio per tenerle accese. Vivere l’attesa del Signore cambia l’orizzonte delle nostre giornate e immette nel presente una drammaticità e una speranza che permettono di non disperarsi di fronte a una realtà che va molto diversamente da come dovrebbe andare. Il Signore verrà, e verrà per salvare. Il fatto che nella parabola Cristo venga presentato come lo sposo indica questa volontà di comunione e di redenzione che riguarda tutto e tutti. La nostra storia individuale e quella dell’umanità intera vanno verso quel momento.
Don Davide
Il cristianesimo è l’unica religione che parla di una chiamata universale alla salvezza. Non solo per alcuni eletti, neanche solo per i buoni. Tutti sono chiamati, “buoni e cattivi”, gente per bene e peccatori.
A questo proposito la Bibbia usa delle immagini. La prima lettura ci parla di un banchetto, offerto gratuitamente. L’immagine è importante anche perché evoca l’idea di una salvezza collettiva. Non è una cena “a due”, è un banchetto, una festa: siamo destinati a entrare in comunione con tutto e con tutti. La Chiesa è il segno e lo strumento di questa comunione.
Nel vangelo Gesù riprende l’immagine del banchetto. Questa volta si tratta di una festa di nozze. Gli invitati però non vogliono partecipare. Hanno cose più importanti a cui pensare (il campo, gli affari…). Sono uomini impegnati, realisti, coi piedi per terra, non hanno tempo da perdere. Preso atto del rifiuto il re manda i suoi servi ai “crocicchi” delle strade, in quei luoghi in cui terminano le strade e cominciano i sentieri. Li manda fuori dalla città ad invitare le persone più lontane dal re. Il vangelo dice che vengono chiamati “cattivi e buoni”.
Dio offre la sua amicizia a tutti. Non c’è nessuno che possa dire: «Dio non vuole o non può essere mio amico, sono troppo cattivo, troppo “sbagliato” per essere suo amico». Quante volte ci siamo sentiti dire che l’amicizia con Dio è qualcosa che ci dobbiamo meritare, che Dio ci ama solo se ci comportiamo in modo degno di lui. Invece il vangelo dice che Dio offre la sua salvezza davvero a tutti. Don Davide
Il perdono di chi ci ha fatto del male è ciò che ci rende simili a Dio. Per contro, senza un’apertura all’insegnamento di Gesù sul perdono qualunque progresso spirituale o morale è illusorio.
Lo insegna il vangelo di questa domenica in cui Gesù racconta una storia per far comprendere cosa sia il perdono e su cosa si fondi. È la parabola del servo malvagio che, dopo essersi visto condonare un debito enorme, si rifiuta a sua volta di rimettere il debito a un suo pari che gli deve una cifra al confronto irrisoria.
La parabola mostra che il perdono manda all’aria l’idea umana di giustizia. La nostra giustizia si può infatti riassumere nella formula “unicuique suum tribuere” (che, non per niente, campeggia sopra l’ingresso della facoltà di Giurisprudenza), cioè nel “dare a ciascuno il suo”. Ognuno deve avere ciò che merita, nel bene e nel male. Il mondo va, o dovrebbe, andare avanti così. La giustizia di Dio è però un’altra cosa, non è contro la legge ma va oltre la legge. Dio rimette i nostri debiti al di là di ogni ragionevole misura.
Ognuno di noi sa quanto questo possa risultare affascinante quando lo consideriamo in astratto, ma terribilmente difficile quando abbiamo subìto dei torti, più o meno gravi, che ci hanno davvero ferito. Perciò non ci sono ricette da applicare. Ogni cammino di riconciliazione è una storia a sé e può assumere forme molto diverse, dalla rinuncia alla vendetta alla rappacificazione, dal riprendere un rapporto affettivo, di fraternità o di amicizia che si era interrotto al provare a pregare per chi ci ha fatto del male perché magari non riusciamo a fare altro. L’essenziale è che ascoltando questa pagina del vangelo chiediamo a Dio di farci andare oltre i nostri blocchi interiori e le nostre misure, aprendoci il cuore ad un cambiamento reale. È essenziale per entrare nel regno di Dio, cioè nella vita nuova che Cristo sta realizzando anche oggi nel mondo. Don Davide