Dove sta il valore di una vita? Quando possiamo dire che un’esistenza è buona e utile, ha senso ed è importante? Sono domande che ci poniamo tutti, prima o poi. Le risposte che siamo capaci di darci spesso sono frutto di bilanci esistenziali e valutazioni ragionieristiche che se applicate a noi stessi generano sconforto e se applicate agli altri facilmente diventano disistima e disprezzo. Il rischio opposto è di incensare noi stessi o gli altri sulla base di risultati ritenuti importanti o di presunti successi.
Ancora una volta la parola di Dio ci spiazza, ponendoci davanti ad un modo di vedere la vita diverso e alternativo a quello degli uomini. È lo sguardo di Dio, che non è il nostro come ammonisce la prima lettura della messa di questa domenica tratta dal profeta Isaia: «I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie».
La parabola degli operai dell’undicesima ora rincara la dose. Il Signore ripaga allo stesso modo gli operai che hanno lavorato tutto il giorno e quelli che, chiamati a fine giornata (probabilmente perché nessuno pensava che valesse la pena chiamarli prima), hanno faticato solo un’ora. Ingiustizia agli occhi degli uomini, buona notizia agli occhi di Dio. Non siamo quello che produciamo, non valiamo in proporzione ai risultati e ai successi che riusciamo a vantare. Il valore della nostra vita è nel rispondere alla chiamata di Dio che ci chiama ad essere suoi amici e che non vuole innanzitutto le nostre buone opere, ma vuole noi stessi, il nostro cuore. A noi spetta ascoltare e seguire la sua voce, secondo la strada che lui indica a ciascuno. Don Davide
Il vangelo di questa domenica sembra proporre un insegnamento di facile comprensione. Gesù racconta di due fratelli a cui il padre chiede di andare a lavorare nella vigna. Vale la pena ricordare che la vigna nell’Antico Testamento rappresenta Israele, il popolo sacerdotale scelto da Dio per compiere la sua opera di salvezza per il mondo. Uno dei due figli oppone immediatamente una tipica risposta da figlio adolescente: “Non ne ho voglia”. Poi però, pentitosi, va a lavorare nella vigna. L’altro invece dà una risposta da suddito più che da figlio: “Sì, signore”, ma invece non ci va. La conclusione è che solo il primo ha fatto la volontà del padre. La morale sembrerebbe semplice: bisogna fare la volontà di Dio con i fatti e non solo a parole. Il che naturalmente è molto vero.
Il resto del brano però sembra dire qualcosa che ad una lettura distratta può sfuggire. Chi è questo figlio che prima oppone un rifiuto e poi va nella vigna a lavorare? Gesù dice che sono per esempio i pubblicani (gli esattori delle tasse al servizio dei romani) e le prostitute, che precederanno nel regno dei cieli – cioè entreranno al posto loro – i capi dei sacerdoti e del popolo a cui Gesù sta raccontando la parabola. Il brano dice che costoro passano avanti nel regno dei cieli perché hanno creduto a Giovanni Battista, cioè a colui che annunciava la venuta dell’agnello di Dio “che toglie i peccati del mondo” (Cfr. Gv1,29). Hanno creduto che stavano entrando nel mondo una misericordia e un perdono senza riserve, persino per gente come loro. Chi si sente giusto una grazia così immensa non la potrà mai accogliere.
Don Davide
Per la terza domenica di fila nel vangelo si parla di una vigna. L’idea di fondo è una vigna trova la sua ragion d’essere unicamente nel portare frutto. Se non porta frutto non serve a niente. Fuor di metafora, Dio ha scelto un popolo per essere strumento di salvezza per il mondo intero, ma se questo popolo si chiude in sé stesso e si dà alle opere del male ecco che non serve più a nulla.
Nel brano della liturgia di questa domenica Gesù racconta una parabola che ci presenta una situazione inverosimile. Si parla di un padrone che, nonostante abbia appurato la malvagità dei contadini continua a sperare in un loro ravvedimento. Finisce per mandare suo figlio, sperando che almeno di fronte a lui abbiano rispetto. Le cose, come sappiamo, vanno diversamente.
È esattamente quello che è successo nella storia della salvezza. Dio invia prima i profeti, molti dei quali vengono perseguitati, e infine manda il suo stesso Figlio che viene preso, cacciato “fuori dalla vigna” e ucciso. Il finale del brano è che a questi vignaiuoli malvagi sarà tolto il Regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti.
La parabola parla ai cristiani di tutti i tempi. Dio ci ha chiamati perché portiamo frutti di salvezza per il mondo intero. Una cattiva educazione cristiana ci ha abituati a pensare il nostro essere cristiani in modo individualistico, come se la fede avesse come fine principalmente la salvezza della propria anima, il raggiungimento di un benessere personale o di una consolazione religiosa.
Questo è il motivo per cui tanta gente intelligente si è allontanata dalla Chiesa: ha visto troppo spesso cristiani individualisti e preoccupati fondamentalmente di sé stessi.
Invece esistiamo in funzione degli altri, siamo scelti perché tutti possano incontrare Gesù Cristo e così fare esperienza di un mondo rinnovato. Don Davide
Viviamo in un mondo che in continuazione ci trasmette questo messaggio: devi avere successo (nel lavoro, come genitore, nelle relazioni sociali ecc.), devi realizzarti e stare bene, prenderti i tuoi spazi e pensare prima di tutto a te stesso. Non che in passato fosse necessariamente meglio. La mentalità mondana ha sempre fatto leva su questi valori, secondo innumerevoli varianti lungo la storia dell’umanità.
Il vangelo di questa settimana ci mostra, come sempre, una visione alternativa. Gesù dice ai sui amici che deve andare a Gerusalemme, dove sarà disprezzato, catturato e ucciso. Per poi risorgere il terzo giorno. Non una tragica fatalità, ma un destino che Gesù abbraccia, perché è il suo personale modo di donarsi al mondo. Solo così può dimostrare all’essere umano di tutti i tempi una volontà di riconciliazione senza se e senza ma, al di là di ogni merito e adeguatezza. Così, morendo in croce e risorgendo il terzo giorno Gesù ci dice che la strada per una vita più grande della morte è il dono di sé.
Gli apostoli sono i primi a non capire tutto questo, ragionando ancora in termini mondani. Proprio come facciamo noi. Ecco perché abbiamo bisogno di rimetterci davanti a questo vangelo così provocatorio, senza passare oltre, senza sminuirlo o pensare che non ci riguardi. Soprattutto dobbiamo fissare lo sguardo su quell’affermazione così perentoria di Gesù: occorre prendere la propria croce e seguirlo, occorre perdere la vita per causa sua se vogliamo salvarla. Non quindi l’amore a una sofferenza fine a se stessa, come se il cristianesimo fosse la religione del dolore, ma un trovare la nostra personale strada per seguire e imitare Gesù nel suo donarsi al mondo.
Don Davide
Le letture di questa domenica parlano di una tematica che può sembrare lontana a noi cristiani di oggi: quella della persecuzione. Sia la prima lettura, tratta dal libro di Geremia, che il vangelo ci parlano di persone che perdono la vita o rischiano di perderla a causa della loro fedeltà a Dio. La cosa sembra non riguardarci. In fondo nei nostri paesi occidentali, per quanto spesso l’ostilità nei confronti della chiesa non manchi, difficilmente si rischia la vita, la liberà, il posto di lavoro per la propria fede.
Perché dunque soffermarci su queste letture? Innanzitutto non va mai dimenticato che ancora oggi tanti nostri fratelli nel mondo vengono perseguitati, talvolta uccisi, proprio in quanto cristiani. Forse il mondo non è mai stato così pieno di martiri come oggi. Queste letture, che vengono lette nelle chiese di tutto il mondo, ci invitano a non dimenticare tutti questi fratelli e a sostenerli con la preghiera e con i mezzi a nostra disposizione.
Ma il motivo dell’attualità di queste letture è anche un altro. Se una persona segue Cristo è impossibile che non paghi un prezzo. Il cristiano nel mondo è segno di contraddizione, perché con le sue parole e soprattutto con le sue opere è portatore di un modo di pensare e di vivere diverso, segno di quel regno di Dio che Gesù è venuto a portare. È una logica diversa che arriva fino a un giudizio nuovo in tutti gli aspetti della vita, compresa la politica, l’economia, la società, l’etica, la cultura.
Di fronte a questa sfida il Signore ci chiede di non aver paura e ci assicura che se scegliamo la via della vita che lui ci ha indicato, il male non avrà mai la meglio su di noi.
Don Davide
Le letture di questa domenica parlano di elezione. Per redimere tutti Dio sceglie alcuni. La storia della salvezza “funziona” così, da sempre. Nella prima lettura, tratta dal libro dell’Esodo, si tratta di un popolo, nel vangelo si parla invece dei discepoli che Gesù sceglie e che invia a evangelizzare. In entrambi i casi Dio sceglie, chiama e invia persone reali, non ideali, per collaborare alla sua opera di salvezza.
CI potremmo chiedere cosa significhi questo per noi cristiani di questo inizio di terzo millennio. Veniamo da una storia che ha visto il cristianesimo come egemone nel mondo occidentale. Salvo poche eccezioni, nascere in Europa significava essere considerati automaticamente cristiani, appartenere a un mondo che, almeno formalmente, si riconosceva nelle verità e nei valori che la Chiesa insegnava.
Oggi la situazione è molto cambiata. Sono sempre meno le persone che si professano cristiane e vivono un’effettiva vita di Chiesa. Questo rende urgente riscoprire e rileggere l’idea di elezione. Le letture di questa domenica ci richiamano il fatto che ciò che è successo al popolo di Israele prima e ai discepoli di Gesù poi è ciò che continua ad accadere oggi. Anche noi siamo scelti perché il mondo conosca Cristo. “Per la sua maggior gloria”, si diceva un tempo con una formula che forse val la pena di riscoprire. Bisogna che nei nostri cuori rinasca la passione per la gloria di Cristo, cioè per la sua presenza, così che il mondo di oggi, così smarrito e pieno di bisogno, possa incontrare lo sguardo del Salvatore e così sperimentare che la gioia, il perdono, la speranza, la salvezza sono possibili.
Don Davide